Gestione passiva vs gestione attiva: alla ricerca di un equilibrio

A cura di Paolo Antonio Cucurachi e Ugo Pomante*
Il dibattito sulla superiorità di uno dei due approcci gestionali sull’altro rappresenta un evergreen nella letteratura accademica. La prima dimostrazione teorica a supporto della gestione passiva la si deve a Sharpe che nel Capital Asset Pricing Model ha indentificato nel market portfolio - un portafoglio nel quale sono presenti tutte le attività rischiose con un peso pari alla loro capitalizzazione di mercato - la migliore soluzione per un investitore in un contesto di mercato efficiente. Bogle, il fondatore di Vanguard, ha poi messo in pratica l’idea di Sharpe realizzando prodotti di investimento indicizzati ed a basso costo che hanno cominciato a competere con i gestori attivi e contribuendo così ad amplificare il dibattito oggetto del presente contributo.
A distanza di quasi 50 anni il confronto tra i due approcci gestionali appassiona ancora il mondo del risparmio gestito, e l’enorme quantità di dati disponibili consente di affrontare il tema senza condizionamenti ideologici, sulla base di evidenze empiriche condotte con modelli metodologicamente corretti.
Un approccio cui spesso si fa ricorso consiste nel quantificare la percentuale di fondi con information ratio positivo, ossia in grado di battere il benchmark (ovviamente nella versione total return). Si tratta di un approccio del tutto ragionevole che consente di distinguere tra asset class:
• più efficienti (ad esempio l’azionario USA Large Cap) dove in una analisi a tre anni riferita al periodo maggio 2020-aprile 2023 il 23,3% dei fondi (distribuiti in Italia) è riuscito a mantenere la promessa di un extra-rendimento positivo grazie alla gestione attiva;
• meno efficienti (ad esempio l’azionario Italia) dove la percentuale sale al 58,3%.
Per accresce la significatività di questa analisi sarebbe utile introdurre alcuni correttivi finalizzati ad isolare l’effetto prodotto dalla presenza:
• di fondi passivi che, performando leggermente peggio rispetto al benchmark, contribuiscono a far salire il numero di fondi con information ratio negativo;
• di fondi attivi con classi dal costo più elevato che a parità di abilità gestionale tendono ad essere penalizzanti per l’investitore a causa della quota parte di commissioni che devono essere retrocesse alla distribuzione;
• di fondi attivi con masse gestite di differente dimensione il cui peso relativo non viene catturato nelle analisi aritmetiche che si limitano a contare i fondi che si collocano sopra o sotto il benchmark.
Un’analisi più accurata di questi aspetti, ed in particolare di quello legato alla presenza di diverse classi, dovrebbe consentire di distinguere tra l’abilità gestionale che caratterizza i gestori attivi ed il peso del costo della distribuzione che in un modello come quello italiano fondato sui rebates continua a transitare dalle performance dei fondi comuni, determinando una evidente distorsione del fenomeno che qui si vuole indagare: un information negativo piuttosto che identificare l’incapacità di un gestore di sovraperformare il mercato, è spesso giustificato dall’impatto del costo della distribuzione .
Un secondo aspetto di grande rilevanza, ma spesso trascurato, è che la percentuale di fondi in grado di battere il benchmark è fortemente influenzata dalla lunghezza dell’orizzonte temporale di riferimento che deve essere sufficientemente lungo per consentire di distinguere tra abilità e fortuna. Le verifiche empiriche sono concordi nell’evidenziare, al di là dell’efficienza delle diverse asset class, che la probabilità di battere il mercato si riduce con l’allungarsi dell’orizzonte temporale. Vi è dunque la conferma che nel lungo termine (sopra i 10 anni) il principale contributo alla performance dei portafogli è offerto dalle scelte di asset allocation strategica, risultando poco rilevanti tanto l’asset allocation tattica quanto la gestione attiva.
Quali indicazioni si possono dunque trarre dalla letteratura accademica (in particolare quella riferita all’efficienza dei mercati) e dalle evidenze empiriche circa un corretto utilizzo della gestione passiva e della gestione attiva? In primo luogo è necessario essere consapevoli che la scelta di uno dei due approcci è gerarchicamente subordinato alla scelta delle asset class nelle quali si intende investire, in quanto è l’asset allocation strategica a guidare la selezione dei prodotti e non il contrario. Una volta scelto il mix di asset class nelle quali investire, è necessario valutare il loro grado di efficienza informativa optando preferibilmente per la gestione passiva in presenza di mercati efficienti e per la gestione attiva in caso contrario. La soluzione preferibile è spesso quella dell’integrazione tra gestione attiva e passiva e non la scelta alternativa tra esse.
Non secondario è il tema del periodo di detenzione dell’investimento, in quanto all’allungarsi dell’orizzonte temporale non solo si riduce la percentuale di fondi con information ratio positivo, ma diventa anche più difficile identificare i gestori che saranno in grado di sovraperformare il benchmark di riferimento. Da ultimo merita una considerazione il tema dei costi in quanto se, da un lato, la percentuale di fondi attivi che batte il mercato è negativamente influenzata dall’incidenza delle commissioni che devono essere riconosciute al distributore, dall’altro lato, non si può non tenere conto che il ricorso alla gestione passiva (spesso promosso dai cosiddetti consulenti indipendenti) comporta il pagamento di una parcella la cui incidenza non può essere trascurata ove si voglia effettuare un confronto omogeneo.
(tratto dalla guida 'Costruire portafogli efficienti e diversificati con gli ETF)
* Paolo Antonio Cucurachi e Ugo Pomante sono professori di Economia degli Intermediari finanziari (rispettivamente presso l’Università del Salento e l’Università Roma Tor Vergata), partner di Benchmark and Style e membri del Comitato scientifico di Quantalys.