Prima della crisi del 2008 il 50% del debito pubblico italiano era in mano agli investitori esteri, una percentuale che si è ridotta al di sotto del 20% alla fine del 2022 secondo i dati della Banca d’Italia
Negli ultimi anni, anche la quota di debito italiano detenuta dalle famiglie si è notevolmente ridotta: alla fine del 2021 le famiglie italiane le società non finanziarie detenevano il 7,92% del debito pubblico italiano
Un approfondimento pubblicato nel terzo bollettino economico della Bce del 2021 affermava che “i detentori di debito a livello nazionale rappresentano una base di investitori più stabile”
Dopo il Btp Valore dei record, con 18,19 miliardi di euro raccolti per 654.675 contratti, il Tesoro è riuscito a coinvolgere con successo il collocamento del debito pubblico italiano a un target di piccoli risparmiatori.
Secondo alcuni studi, incrementare la quota di debito detenuta a livello nazionale, e in particolare quella in mano alle famiglie, produce alcuni effetti potenzialmente interessanti per la stabilità finanziaria del Paese. Un approfondimento pubblicato nel terzo bollettino economico della Bce del 2021 affermava che “i detentori di debito a livello nazionale rappresentano una base di investitori più stabile… e possono rendere meno probabile l’insolvenza sovrana perché aumentano gli incentivi al rimborso del debito, in quanto il costo di un potenziale default sarebbe a carico dei residenti”.
Il debito italiano in mano estera
Prima della crisi del 2008 il 50% del debito pubblico italiano era in mano agli investitori esteri, una percentuale che si è ridotta al di sotto del 20% alla fine del 2022 secondo i dati della Banca d’Italia. Rispetto alla stragrande maggioranza degli altri Paesi dell’Eurozona, il debito pubblico in mano straniera è assai meno rilevante: nel 2020 solo Malta vedeva una quota di debito detenuta da non residenti inferiore a quella italiana. Secondo la Banca d’Italia, però, la quota di debito detenuto da soggetti stranieri è tornata a crescere dopo dieci mesi di declino consecutivi lo scorso febbraio, ha riportato Reuters.
L’allontanamento delle famiglie dal debito italiano
Negli ultimi anni, anche la quota di debito italiano detenuta dalle famiglie si è notevolmente ridotta. Secondo gli ultimi dati Bankitalia, alla fine del 2021 le famiglie italiane e dalle società non finanziarie detenevano il 7,92% del debito pubblico italiano. Nel 2002 le sole famiglie avevano in mano oltre il 30% del debito italiano, con un calo pressoché costante negli anni successivi.
E la Bce? Nel 2021 aveva in possesso il 25,27% del debito italiano. Il ridimensionamento di quest’ultima percentuale dovuta alla normalizzazione della politica monetaria, che lascerebbe al mercato il compito di rifinanziare una larga parte del fabbisogno pubblico, potrebbe portare un Paese molto indebitato come l’Italia a dover fronteggiare un aumento dei costi di finanziamento.
Secondo quanto aveva affermato a questo giornale l’analista obbligazionario Giacomo Alessi, in occasione del lancio del Btp Valore, il Tesoro starebbe cercando attivamente una maggiore stabilità attraverso un maggiore collocamento di debito pubblico alle famiglie. Una tesi che, invece, non convince l’ex ministro delle Finanze, Giovanni Tria, interrogato sul punto da We Wealth, a margine del Festival dell’Economia di Trento.
L’analisi pubblicata nel 2021 dalla Bce suggerisce che diversificare i possessori del debito pubblico, con particolare riferimento alle famiglie, sia un elemento in grado di incrementare la stabilità finanziaria, grazie a una minore dipendenza dalle banche nazionali nell’assorbimento dei titoli di Stato. Come evidenziato nella crisi del 2011, il rischio di una perdita di fiducia sulla solvibilità del Paese (con relativo aumento dello spread) può colpire i bilanci delle banche che hanno in pancia una grande quantità di titoli di Stato nazionali. Questo può mettere in moto una crisi bancaria attivando un cosiddetto “feedback loop”, nel quale “si cade in una spirale negativa auto-rinforzante che coinvolge difficoltà statali, fragilità bancaria e recessione economica”.