Gli investitori in crypto (e non solo loro) sono immaturi: e ancora disattendo il consiglio di detenere i propri bitcoin su wallet e non su exchange, se non per lo stretto necessario per il trading
Il regolatore ha la sua parte di responsabilità: perché anziché demonizzare un qualcosa che ormai è asset class ed è richiesto soprattutto dai più giovani investitori, dovrebbe consentirne la vendita alle banche in una ambiente regolamentato e garantito (stimolando le partnership con le tecnologie delle fintech)
L’Exchange crypto “più longevo del mondo” – che per inciso è italiano – ha interrotto l’operatività. È successo venerdì 17 febbraio, a causa di “difficoltà nella gestione della liquidità”. È quanto si apprende dal comunicato di The Rock Trading, la società italiana guidata da Andrea Medri e Davide Barbieri, due istituzioni nella comunità bitcoin italiana. Un comunicato secco e senza ulteriori spiegazioni, diramato sul gruppo Telegram degli utenti, forse nel maldestro tentativo di tenere a bada il Fud (fear, uncertainity & doubt), come suggerito dallo stesso Medri in chat, poco prima che fossero bloccati anche i commenti. La società starebbe lavorando per risolvere il problema, ma al momento non esiste alcuna altra comunicazione ufficiale.
Gli utenti intanto si sono già organizzati in un secondo gruppo Telegram con il sottotitolo “tutela legale”. Di questo hanno parlato per tutto il fine settimana tutti i principali quotidiani italiani. Cosa sia successo non è ancora chiaro: l’unico punto fermo è che i fondi non sono più disponibili (al momento). Ovviamente viste le dimensioni della piattaforma e la marginalità del mercato italiano, il prezzo di bitcoin non ne ha risentito in alcun modo.
Ma l’impatto rischia di essere devastante sul fronte reputazionale, soprattutto perché questa volta l’evento è tutto italiano e “non riguarda i soliti ciarlatani che si possono tenere a distanza col semplice buon senso”, dice Ferdinando Ametrano, professore alla Bicocca di tecnologia blockchain e amministratore delegato di CheckSig, società che fa custody di bitcoin (e che è partecipata allo 0,8% dalla stessa holding che possiede TRT). “Per anni di loro ho detto che non si erano mai fatti bucare da hacker e non si erano appropriati dei soldi dei clienti: le migliori credenziali che si potessero ostentare nel Far West del mondo cripto. Oggi leggiamo che sarebbero stati bucati per circa 900mila euro a settembre 2021, ma soprattutto constatiamo che il blocco dei prelievi euro e cripto suggerisce la possibilità di ammanchi ben più ingenti”.
Ascesa e caduta dei “rivoluzionari”
La storia di TRT – ancora disponibile sul blog del sito – inizia addirittura nel 2007 con Second Life. Il primo bitcoin su TRT è stato scambiato nel giugno 2011 quando era in effetti questione da nerd: la storia di Medri ne faceva un visionario e una persona affidabile per moltissimi motivi. Certamente a guardare con gli occhiali dei fatti recenti, saltano agli occhi cose che prima non sembravano anomale. Anche la parentesi maltese della società (dal 2013 al 2018) suscita un qualche fastidio. Ma la verità è che gli indizi di quello che stava accadendo non ci sono veramente stati fino alla fine. L’unico degno di nota, che però non ha destato allarme, è stato a fine gennaio la risoluzione consensuale del rapporto con Banca Sella, presso cui The Rock Trading aveva un conto operativo di appoggio. Con il senno di poi è facile dire che fosse un segnale. Qualche giorno fa invece lo spostamento dei fondi su un conto della irlandese Modulr era stato salutato come primo passo di un’espansione europea. Poi le cose sono precipitate, ma dire oggi che i segnali erano evidenti non è corretto.
E anche cosa sia successo veramente è presto per dirlo. Sicuramente il buco da 900mila euro nella controllata OneDime (società parallela all’Exchange, con focus sullo sviluppo tecnologico) ha avuto un peso; ma l’ipotesi che si fa insistente è che l’Exchange si sia messo a fare trading come controparte nelle transazioni (come Ftx) e che dunque abbia progressivamente perso terreno fino all’interruzione dell’operatività. E il fatto che la società non comunichi nulla non è certamente rassicurante.
La resposabilità dei regolatori
Se fatti e responsabilità sono ancora tutti da chiarire e accertare, intanto però stimolano più di una riflessione. La prima è che chi si scaglia contro il mondo crypto spesso sbaglia il tiro: si denuncia blockchain come un’innovazione inutile ad elevato consumo di energia e utile solo alle mafie per fare illeciti (entrambe tesi opinabili e che possono essere smentite dai numeri sul mix energetico particolarmente green e sulla quota di illeciti effettivamente commessi che è dello 0,24% delle transazioni globali). Quello che andrebbe detto e che ormai diventa sempre più evidente è che le truffe intorno a bitcoin e a chi si approfitta degli investitori in quella che a ogni effetto è una asset class, per quanto di nicchia, si moltiplicano. E non essendoci alcuna regolamentazione chiara questo non avviene. “Risparmiatori e investitori dovrebbero poter operare tramite le istituzioni finanziarie tradizionali su mercati regolati, le fintech cripto più serie dovrebbero poter svolgere il loro ruolo di fornitori, partner o attori pienamente autorizzati e regolati: non è troppo tardi per rimediare”, dice Ametrano.
La responsabilità insomma è anche dei regolatori. “Non si tratta evidentemente di responsabilità diretta, ma si potrebbe indicare una specie di aggravata “omissione di servizio” – continua Ametrano – Nel tentativo maldestro di marginalizzare (anzi, meglio, criminalizzare) il mondo cripto, l’Autorità Bancaria Europea nel 2014 invitò i regolatori nazionali a dissuadere le istituzioni finanziarie dal comprare, vendere e detenere criptovalute in attesa di un quadro regolamentare che nove anni dopo non è ancora arrivato. Quindi, risparmiatori e investitori interessati al mondo cripto sono stati lasciati in balìa di operatori spesso inaffidabili, quando non semplicemente truffaldini.
Persino di fronte all’evidenza di una nuova asset class che non può essere ignorata in una allocazione di portafoglio diversificata, con bitcoin investimento più performante del decennio, i regolatori continuano a ribadire il loro non expedit alla partecipazione del mondo bancario al fenomeno cripto. Addirittura, Consob ha invitato persino le società di revisione e consulenza a non lavorare con operatori cripto, invece di chiedere loro un ingaggio più pieno e controlli più stringenti. Insomma, sembra che gli operatori cripto debbano essere lasciati fuori dal consorzio industriale e finanziario e i loro clienti vadano solo dissuasi, per un pregiudizio squisitamente ideologico. Eppure, per evitare che l’ingenuo Pinocchio, allettato dal miraggio di guadagni facili, consegni i suoi zecchini al gatto e alla volpe, basterebbe che potesse comprare e vendere bitcoin tramite la sua banca, investire in ETF (non ETP) cripto, custodire tramite banche depositarie”.
… e la scarsa consapevolezza degli investitori
Il paragone con Pinocchio è davvero quello giusto. Perché c’è un altro punto da sottolineare ed è la scarsa educazione finanziaria – vulnus sempiterno degli italiani – che accomuna gli investitori domestici di ogni generazione. “Il mio week-end è stato dominato da centinaia di loro messaggi preoccupati: investitori, appassionati (perché l’investimento cripto è spesso culturalmente caratterizzato), ma anche manager del mondo finanziario tradizionale, giornalisti e politici.
Tutti quelli che mi hanno scritto non hanno mancato di ammettere di aver disatteso il suggerimento, noto e sempre ribadito, di non custodire fondi presso le borse di scambio, se non quelli strettamente necessari al trading. Insomma, gli investitori del mondo cripto hanno ancora un basso grado di maturità. Quando non si sparano nel piede con pratiche fai-da-te (quello è un altro capitolo, tragedie dovute a imperizia tecnica, furti, decessi improvvisi che lasciano gli eredi senza accesso alle cripto) si affidano a qualunque intermediario sembri affidabile. A nessuno viene in mente che il saldo del proprio conto corrente possa svanire o che le azioni nel proprio dossier titoli non esistano davvero. Quello che nel mondo finanziario tradizionale è dato per scontato – grazie ad un ordine faticosamente guadagnato negli ultimi decenni, seppur con una fiducia non completamente fondata – non può esserlo nel mondo cripto”.
Chiarito il punto del non detenere risparmi cripto sulle borse di scambio, il tema che ne deriva è quello della custodia. Ora, The Rock Trading godeva di una vasta fiducia, motivata anche da scelte prudenti del management, effettuate spesso a scapito di una crescita che avrebbe potuto essere maggiore se solo fosse stata più spregiudicata. Ad esempio non hanno mai servito clientela statunitense, non consentono posizioni a leva, incoraggiano i clienti a non detenere le cripto sulla piattaforma di trading, le concessioni agli altcoin sono sempre state limitate. Ed era stata una delle prime società a iscriversi all’Oam. Non è bastato.
“Nessuno dovrebbe considerare ragionevole affidare le proprie cripto ad aziende che non superino positivamente l’esame di quattro condizioni inderogabili: offrire una prova-di-riserve (proof-of-reserves) pubblica, periodica, inequivocabile; essere assoggettate ad audit indipendente di terza parte; avere coperture assicurative; avere una rigorosa segregazione tra i beni dei clienti e quelli della proprietà”, conclude Ametrano. Ma una domanda resta nell’aria: perché nel momento in cui peraltro l’Italia scrive in Finanziaria che le criptovalute sono tassabili (quindi in qualche misura le riconosce seppure indirettamente) e l’Ue legifera con un regolamento complessivo cercando di fare ordine (altro endorsement seppure indiretto) questi servizi a vantaggio dell’investitore cripto non sono offerti dalle banche tradizionali?
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