L'Europa interviene sulle shell company

Roberta Moscaroli
Roberta Moscaroli
30.6.2022
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La Commissione europea ha formulato una proposta di direttiva per prevenire l'uso improprio di entità di comodo a fini fiscali. Quali le conseguenze impositive per le shell company?
Il 22 dicembre 2021 la Commissione europea ha formulato una proposta di direttiva (cosiddetta “Unshell” o “Atad 3”, di seguito, la “proposta di direttiva”) con la finalità di prevenire l'uso improprio di entità di comodo a fini fiscali (cosiddette «shell company», appunto).
La proposta di direttiva contiene un assetto normativo che, una volta attuato, consentirà agli Stati membri di prevenire, individuare e contrastare l'uso improprio di shell company a fini fiscali.
La nuova misura si colloca nel contesto delle iniziative, assunte dall'Unione europea, utili a promuovere un sistema fiscale robusto, efficiente ed equo nella stessa Unione europea, secondo il programma annunciato dalla Commissione europea con comunicazione del 18 maggio 2021 («Tassazione delle imprese per il XXI secolo – Com(2021) 251 final»).

I soggetti tenuti ai nuovi obblighi dichiarativi: il “substance test”


Entrando nel dettaglio della proposta di direttiva, essa prevede innanzitutto che ciascuna impresa debba valutare, per sé, la sussistenza dei presupposti applicativi della normativa in parola e cioè il ricorso congiunto dei seguenti tre “indici di allerta” (da misurare con riferimento ai due esercizi precedenti):
- composizione dei ricavi (ricavi costituiti per almeno il 75% da redditi passivi e cioè, sostanzialmente, da interessi, canoni e dividendi);
- svolgimento di attività transfrontaliere sulla base di specifici presupposti;
- struttura leggera, cioè struttura caratterizzata dalla esternalizzazione della gestione delle operazioni ordinarie e dei processi decisionali relativi a funzioni significative.

Dalla disciplina in parola sono comunque escluse quelle entità le cui attività sono soggette a un adeguato livello di trasparenza e che non presentano, pertanto, un rischio di mancanza di sostanza ai fini fiscali (es. società i cui valori mobiliari siano ammessi alla negoziazione o quotati in un mercato regolamentato, imprese finanziarie). Sono inoltre escluse le imprese che sono situate nella stessa giurisdizione della controllata operativa e del titolare effettivo e le imprese che impiegano almeno cinque persone a tempo pieno e in via esclusiva, per svolgere l'attività della società.

Le imprese che rientrano nell'ambito di applicazione della disciplina in commento («Imprese tenute alla comunicazione» di cui all'articolo 6 della proposta di direttiva) hanno l'obbligo di dichiarare alle competenti autorità fiscali il possesso di “indicatori di sostanza minima” (“minimum substance test”) e cioè la disponibilità di locali, conti bancari (almeno uno) e di amministratori e/o personale fiscalmente residenti nella giurisdizione di riferimento o comunque in un Paese ubicato a una distanza “compatibile” con l'effettivo esercizio delle funzioni, allegando a tal fine i rilevanti documenti giustificativi («obblighi di comunicazione»).

In subordine (e cioè in mancanza di locali, conti bancari e personale utili ad indicare una sostanza economica), le medesime imprese potranno comunque fornire prova dell'avvenuto svolgimento di attività idonee a generare i propri redditi o alternativamente (prova) del controllo sulle attività costituenti il proprio patrimonio e dei correlati rischi (cosiddetta “procedura di confutazione”), o ancora dimostrare che la loro esistenza non comporta alcuna riduzione degli obblighi fiscali per i titolari effettivi o per il gruppo di appartenenza (cosiddetta “procedura di esenzione”).

L'impossibilità o l'esito infruttuoso di dette procedure comporterà che le società in parola siano considerate “di comodo” (shell company), con le conseguenze di seguito descritte.

Le conseguenze impositive per le shell company


Qualora, a seguito del procedimento sopra descritto, l'entità dovesse risultare priva di sostanza economica, la stessa sarà esclusa dai benefici fiscali derivanti dai trattati contro le doppie imposizioni nonché da quelli derivanti dalle direttive interessi e royalty (direttiva 2003/49/CE) e madre-figlia (direttiva 2011/96/Ue). I redditi passivi della medesima entità, inoltre, saranno tassati in capo ai relativi azionisti, come se direttamente maturati in capo a questi ultimi.

Da un punto di vista procedurale, in particolare, l'entità non potrà più ottenere, dalla propria amministrazione finanziaria, il certificato di residenza fiscale che si pone come requisito per il riconoscimento dei suddetti benefici da parte dello Stato “di origine” del flusso. In alternativa, la giurisdizione di riferimento potrà rilasciare un certificato di residenza “speciale”, contenente l'avvertenza che l'entità si qualifica come “di comodo”, con la conseguenza che, anche in questo caso, non si applicheranno i benefici fiscali previsti dalle succitate convenzioni.

Considerazioni critiche e conclusioni sulle shell company


La proposta di direttiva, qualora adottata senza modifiche, dovrebbe essere recepita dagli Stati membri nel corso del 2023 ed entrare in vigore il 1° gennaio 2024.
Tale disciplina porrà una serie di criticità e di questioni interpretative (ad esempio, in termini di coordinamento con la disciplina sulle Cfc) che occorrerà valutare attentamente, soprattutto nell'ambito delle attività di “international deal structuring” che implicano l'utilizzo di strutture di investimento complesse.
Vero è, tuttavia, che, a prescindere dal recepimento della disciplina in parola, le istituzioni europee e (per quanto ci riguarda più da vicino) la stessa Agenzia delle entrate hanno focalizzato da tempo la propria attenzione sulle strutture di investimento multigiurisdizionali, caratterizzate dalla presenza di sub-holding prive di sostanza economica e per le quali la prova della qualità di “beneficial owner” è spesso problematica: quindi, si potrebbe ritenere che l'avvento della nuova disciplina potrebbe contribuire a fornire elementi utili per una più semplice qualificazione delle fattispecie.
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È partner dello studio legale Dentons, nella sede di Roma. Dottore commercialista e
revisore contabile, si occupa di fiscalità a 360°, pianificazione fiscale, tax ruling e
interpelli, private wealth management, fiscalità dei trust, piani di incentivazione, fiscalità
delle banche, delle assicurazioni e dei Ias/Ifrs Adopter. Segue procedimenti di voluntary
disclosure e patent box.

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