Trasmettere il patrimonio agli eredi: quali novità all'orizzonte?

Nicola Dimitri
4.7.2022
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La Consulta ha dichiarato incostituzionali le norme che impongono di attribuire automaticamente ai figli il solo cognome del padre. Questa pronuncia impatta anche nell'ambito della trasmissione generazionale della ricchezza

L’ordinamento, sensibile ai mutamenti della società, per intervento del legislatore o mediante l’attività decisoria del giudice, evolve e apre, di volta in volta, a nuove possibilità, diritti e orizzonti. Prova ne è la recente sentenza della Corte costituzionale attraverso cui è stata dichiarata illegittima, in quanto discriminatoria, la regola che attribuisce alla prole automaticamente il cognome del padre: nel solco del principio di eguaglianza tra coniugi, ad entrambi i genitori è ora riconosciuta la facoltà di attribuire al figlio il proprio cognome, secondo l’ordine concordato. 

Siffatta pronuncia segna un ulteriore passo in avanti del nostro ordinamento verso il percorso di parificazione dei diritti tra uomo e donna; in ossequio, tra le altre cose, a quanto già stabilito – ben prima della pronuncia richiamata – dalla Convenzione Cedaw, dal Trattato di Lisbona, dalla Convenzione europea per i diritti dell’Uomo, nonché dalle sentenze emesse dalla Cedu. Ebbene, questa – senz’altro storica e attesa – decisione apre a implicazioni che involgono e lambiscono l’ambito patrimoniale e successorio. 

A tal riguardo, abbiamo chiesto all’avv. Maria Cristiana Felisi, dello Studio Maisto e Associati, di approfondire la questione.

In che termini la decisione della Consulta incide sulla trasmissione della ricchezza e sul passaggio generazionale d’azienda?

La Consulta, nell’aprile 2022, ha dichiarato incostituzionali tutte le norme che impongono automaticamente il solo cognome del padre, anziché quello di entrambi i genitori. Da ora in poi, quindi, “il figlio assume il cognome di entrambi i genitori nell’ordine […] concordato, salvo che essi decidano […] di attribuire soltanto il cognome di uno dei due [...]”. La pronuncia ha significativi riflessi anche per quanto riguarda la trasmissione generazionale della ricchezza, laddove il cognome materno ha un intrinseco valore distintivo. Si pensi ad esempio ai cognomi di donne note al pubblico per meriti imprenditoriali e/o culturali, ed all’interesse in capo ai discendenti di mantenere detto cognome per sfruttarne il valore identificativo.

È possibile chiederle un esempio? Inoltre, in che modo il consulente legale può soddisfare le esigenze del cliente e garantire la protezione e la tutela del patrimonio nel tempo?

Uno degli esempi più calzanti è rappresentato dai discendenti delle grandi firme della moda, che, avendo interesse a mantenere il cognome della stilista, in passato si vedevano costretti a ricorrere alle autorità competenti per poter assumere il cognome materno, dovendone motivare la richiesta. Grazie all’intervento della Consulta, questi passaggi non saranno più necessari. Quanto agli strumenti di tutela del patrimonio nel tempo, risulta utile il patto di famiglia, contratto con cui, nel rispetto delle norme sulle successioni, l'imprenditrice trasferisce l'azienda e/o le partecipazioni sociali ad uno o più discendenti. Con questo patto, ad esempio, la fondatrice di una casa di moda o di un qualsiasi altro business potrebbe trasferire l’azienda a quelli fra i suoi discendenti che hanno l’intenzione e la capacità di portarla avanti, sfruttando inoltre la trasmissibilità del cognome celebre e notorio per dare continuità (anche d’immagine) al marchio. 

Allargando il discorso, quali sono, gli strumenti di trasmissione generazionale in ottica femminile?

Gli strumenti messi a disposizione dal diritto italiano, in punto di trasmissione generazionale della ricchezza, non conoscono discriminazioni basate sul sesso. Le aziende familiari, ad esempio, possono essere passate ai discendenti – donne o uomini – che meglio sapranno guidare il business familiare nella prossima generazione. E ciò tramite il menzionato patto di famiglia, una donazione, o altri strumenti (tra cui trust; fondazioni; polizze; clausole societarie) che possano consentire una serena trasmissione della ricchezza e del know how familiare attraverso le generazioni. Né esistono discriminazioni a livello di tutele che la legge riserva ai successibili. Il coniuge viene protetto in egual misura, sia esso marito o moglie, tramite il riconoscimento di una quota di eredità che gli viene per legge riservata assieme al diritto di abitazione sulla casa familiare e d’uso dei mobili che la corredano (a patto che la casa familiare sia di proprietà del coniuge defunto, ovvero comune). Allo stesso modo, nessuna differenza esiste tra figlie femmine e figli maschi – e nemmeno, più in generale, tra figli naturali, legittimi e adottivi: a tutti loro la legge riserva una quota di eredità, la cui entità varia solo al variare del numero e qualità dei componenti della famiglia, ma non in base al sesso.

Avv. Felisi, ci può illustrare un caso pratico di discriminazioni vietate nella trasmissione della ricchezza anche alla luce delle convenzioni internazionali, tra cui Cedu, Cedaw?

Come detto, nel diritto italiano non vi sono a livello positivo delle discriminazioni basate sul sesso in punto di passaggio generazionale della ricchezza. Ciò, tuttavia, non è vero in tutti i paesi del mondo. In alcuni paesi viene applicata la sharia, la legislazione religiosa musulmana, che deriva dai precetti religiosi islamici e basata sulle relative sacre scritture. Questa legislazione, al contrario di quella italiana, fa delle distinzioni basate sul sesso: in generale, ad esempio, la legge della sharia riconosce ai figli maschi una quota ereditaria doppia rispetto a quella riconosciuta alle figlie femmine. Siffatte disposizioni della sharia, se portate all’attenzione di un giudice italiano, potrebbero essere esaminate sotto il profilo della contrarietà all’ordine pubblico italiano, sia interno che internazionale, soprattutto per la contrarietà con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel 2018, ha sancito la disapplicazione della sharia in quanto discriminatoria, affermando che uno Stato non può mai farsi garante dell’identità di un gruppo di minoranza a detrimento del diritto di un membro di quel gruppo di scegliere di non appartenervi.

 

Articolo estratto dal Focus pubblicato sul Magazine di We Wealth di giugno 2022

 

Redattore e coordinatore dell'area Fiscal & Legal di We Wealth. In precedenza ha lavorato nell'ambito del diritto tributario e della fiscalità internazionale presso primari studi legali

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