Etf: un alleato di banker e reti

Rita Annunziata
1.6.2022
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Offrire alla clientela prodotti meno costosi a parità di performance potrebbe rappresentare un asso vincente per le private bank. Ma anche per i consulenti finanziari. Specie alla luce degli obblighi di trasparenza introdotti dalla Mifid2. Che in futuro potrebbero spingere sempre più investitori verso gli Etf

Gli Etf possono essere dei buoni alleati anche dei consulenti finanziari e dei private banker? Secondo Giovanni Folgori di Euclidea e Roberto Pedon di Cassa Lombarda, sì. Ecco perché

Consentono non solo di abbassare il livello complessivo dei costi di portafoglio ma anche di garantire al cliente una maggiore precisione dell’esposizione

Folgori: “Non abbiamo nessun conflitto d’interesse e mediamente contiamo un 40-50% di fondi passivi nel portafoglio. Questo, secondo me, è lo schema di equilibrio”

Con l’entrata in vigore della Mifid2, che ha introdotto obblighi di trasparenza più stringenti per gli intermediari, prodotti molto meno costosi a parità di performance potrebbero diventare l’arma vincente per i private banker. Ma anche per i consulenti finanziari. Senza dimenticare il fatto che gli Etf consentono di prendere posizione su segmenti di mercato particolarmente specialistici e innovativi (come le biotecnologie o le energie rinnovabili), garantendo al cliente una maggiore precisione dell’esposizione. 


“Per le reti, fino a qualche tempo fa, era molto più vantaggioso intervenire sui fondi comuni. Gli Etf, come replica passiva, non stuzzicavano l’interesse dell’industria”, racconta Roberto Pedon, responsabile gestioni individuali e analisi quantitativa di Cassa Lombarda. “Con la crescita del numero e degli scambi su questo mercato, se ne sono interessati non solo i private banker ma anche l’intero settore dell’asset management”. Gli Etf, azionari o obbligazionari, permettono di intervenire su mercati aperti e ottenere un riscontro immediato dell’investimento, spiega infatti Pedon. Oltre a offrire un’ampia diversificazione.

“Sull’azionario, offrono al private banker ampie soluzioni anche in quelle aree geografiche che in passato costituivano magari una parte minimale dei portafogli dei clienti, come i paesi emergenti. Tra l’altro, consentono di investire anche su singoli paesi (basti pensare alla Cina che sta acquisendo sempre più spazio) e singoli settori”, precisa Pedon. “Questa diversificazione ha aiutato molto il private banker nell’interlocuzione col cliente”. E lo stesso vale per il settore obbligazionario, con prodotti che investono per segmenti di curva, governativi, corporate investment grade, ma anche sui mercati emergenti o sul mercato del credito. 


Tornando al tema dei costi, come anticipato in apertura, la disclosure imposta dall’introduzione della Mifid2 ha a sua volta dato un ulteriore impulso a questa tipologia di fondi d’investimento. “Presentare al cliente prodotti meno costosi a parità di performance e approccio al mercato è un’arma molto forte a disposizione del private banker”, continua Pedon. Anche perché il cliente, a sua volta, è molto più attento ai costi complessivi (dai costi di negoziazione nel caso dell’amministrato ai costi di gestione nel caso del gestito). “Non a caso in Cassa Lombarda, da un anno e mezzo abbiamo costituito una linea che investe solo in Etf che ha avuto un riscontro molto forte soprattutto per il contenimento dei costi”, osserva l’esperto. 


“Penso che ormai non ci sia alternativa”, interviene Giovanni Folgori, chief investment officer di Euclidea. “Per certi mercati è semplicemente più efficiente comprare lo strumento passivo. È quasi una questione di deontologia professionale, non si può escludere gli Etf da un’asset allocation complessiva. Noi siamo una società-gestore e mediamente contiamo un 40-50% di fondi passivi nel portafoglio. Questo secondo me è lo schema di equilibrio. Un portafoglio ben fatto, che sia più orientato al bond o all’equity deve sempre prevedere una buona dose di Etf”. 


Gli Etf, in definitiva, possono essere un buon alleato anche del consulente finanziario. Non solo perché costano meno, spiega il cio, ma anche perché su determinati mercati il gestore attivo non aggiunge valore (come sull’equity Usa ed Ue, sui bond governativi e corporate). Diverso il caso degli emergenti dove, secondo Folgori, i gestori attivi “danno valore e vale la pena pagare di più”.



(Articolo tratto dal magazine We Wealth di maggio 2022)

Giornalista professionista, è laureata in Politiche europee e internazionali. Precedentemente redattrice televisiva per Class Editori e ricercatrice per il Centro di Ricerca “Res Incorrupta” dell’Università Suor Orsola Benincasa. Si occupa di finanza al femminile, sostenibilità e imprese.

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