Biennale Architettura 2023, il Padiglione Italia sarà "Spaziale"

Il titolo del Padiglione Italia alla 18. Mostra Internazionale di Architettura (sabato 20 maggio – domenica 26 novembre 2023), “Spaziale – Ognuno appartiene a tutti gli altri”, rimanda a una concezione relazionale dello spazio. Del resto la curatela è collettiva. Di Fosbury Architecture, collettivo di giovani architetti (Giacomo Ardesio, Alessandro Bonizzoni, Nicola Campri, Veronica Caprino, Claudia Mainardi; nessuno supera i 40 anni) che hanno scelto il proprio nome dal campione del salto in alto Dick Fosbury (Portland, 6 marzo 1947 – Portland, 12 marzo 2023). Metafora di un padiglione in movimento che non esporrà una ricognizione ma un racconto non limitato agli spazi delle Tese delle Vergini e alla durata della mostra, grazie a nove progetti site-specific destinati ad altrettanti luoghi «spazialmente critici» d’Italia, poiché «ciò che restituisce la dimensione di “luogo” a un posto, è il tempo». A parlare è Maria Vittoria Clarini Clarelli, storica dell’arte e dirigente del Ministero della Cultura, in conferenza stampa.
Un padiglione spaziale
Lo spazio è un «luogo fisico simbolico, un’area geografica di dimensione astratta, un territorio delle possibilità. Su questo tronco si innesta il progetto di Fosbury Architecture, nel quale l’architettura non è tanto uno “spazio costruito” quanto «la rete dei rapporti che permettono di insediarsi nella realtà presente, e che riguardano il corpo, l’ambiente, il paesaggio, la geografia fisica e politica, l’istruzione e il retaggio culturale nella sua sopravvivenza materiale e immateriale». La scommessa non è più sul segno individuale, ma su una progettualità partecipativa e transdisciplinare per temi urgenti. «Nella lingua italiana, espressioni come “fare spazio” indicano l’accoglienza; “dare spazio” l’invito a intervenire e a partecipare. La realtà ha delle dimensioni critiche e il focus del progetto è sugli spazi fragili e problematici», perfettamente inseriti in quel “Laboratorio del Futuro” che è il titolo dato dalla curatrice, l’architetta e scrittrice Lesley Lokko (Ghana/Scozia) a questa edizione della Biennale Architettura.
«Rappresentiamo la generazione cresciuta in un contesto di crisi permanente. Ci siamo iscritti all’università a cavallo del biennio 2007-2008 (i due anni neri del crack mutui subprime, ndr)», racconta Giacomo Ardesio, che intende la crisi come “un lungo periodo di instabilità e insicurezza, specialmente quello derivante da una serie di eventi catastrofici”. Il settore delle costruzioni, dell’urbanizzazione in senso lato, tuttavia, «non conosce crisi ed è responsabile per il 40% delle emissioni di anidride carbonica, e per il 36% del consumo di energia elettrica». Nello stesso tempo, «gli architetti sono sempre meno protagonisti della trasformazione di città e territori. In Italia potremmo dire che l’architettura stia vivendo una crisi di rilevanza».
Ma, come dichiarato da Lesley Lokko, le pratiche architettoniche sono le uniche in grado di dare vita a nuove forme di politiche pubbliche e di immaginare diversi modi di abitare. Prosegue Ardesio: «Per citare Thomas Khun, quado è in atto una rivoluzione, cambia il paradigma. Il progetto di scarsità, inteso come un utilizzo migliore e ottimale delle risorse, è per noi un’opportunità». Essendo chiaro che il contesto è mutato, noi siamo «una giovane generazione di architetti che hanno imparato a operare nella disillusione». Il progetto spazialmente e temporalmente espanso del Padiglione Italia si articola in tre fasi.
I nove progetti site-specific
Spiega Veronica Caprino: «la prima è quella dell’attivazione dei progetti; la seconda è il padiglione vero e proprio, sintesi teorica dei progetti attivati nei territori. La terza fase, è quella che riguarda il proseguimento di tutti i progetti oltre la durata della mostra. I nove luoghi interessati dal progetto “espanso” del Padiglione Italia sono Taranto, Ieranto, Trieste, Ripa Teatina, la Terraferma veneziana, Cabras, Librino, Belmonte Calabro, la piana di Pistoia. A Taranto sui tetti della città, il collettivo Disaster si interroga sulla possibilità di convivere con il disastro: Taranto è paradigmatico di una grande condizione di fragilità. Nella Baia di Ieranto (Massa Lubrense, Napoli, architetti BB – Alessandro Bava e Fabrizio Ballabio – con Terraforma Festival) il tema è quello della riconciliazione con l’ambiente, della possibilità di riaffermare un patto spaziale fra uomo e natura. Trieste, al confine italo-sloveno è città di confine per eccellenza, storico simbolo di convivenza pacifica (analisi di Giuditta Vendrame con Ana Shametaj).
A Ripa Teatina, in Abruzzo, si riflette sul tema delle opere pubbliche incompiute, sulla possibilità di rigenerare decostruendo tramite un processo di riattivazione partecipata con la comunità locale (HPO con Claudia Durastanti). Alla Terraferma veneziana, contraltare produttivo e logistico della Serenissima, è dedicata la democratizzazione delle attività ricreative (Parasite 2.0 con Elia Fornari). A Cabras, in Sardegna, al confine fra la zona del Montiferro e quella del Sinis, ci si interroga su quale possa essere il rapporto tra agricoltura e transizione alimentare, esaminando la filiera della bottarga sarda (gruppo Lemonot con Roberto Flore). A Librino (Catania) il tema è quello della rigenerazione delle periferie, una delle più popolose d’Italia, sperimentando nuove pedagogie (Studio Ossidiana con Adelita Husni Bey). A Belmonte calabro si riflette sul superamento del divario digitale fra territori (collettivo Orizzontale e Bruno Zamborlin). Nella Piana Firenze Prato Pistoia, si indagano «i luoghi e i processi di produzione dell’idillio pastorale toscano» con (ab)Normal e CAPTCHA in collaborazione con Emilio Vavarella.
Un "mondo nuovo"
Nel 1932 Aldous Huxley dava alle stampe il distopico “Mondo nuovo”. Alla fine di quel romanzo il sentimento nei confronti del progresso è ambiguo. “Mondo Novo” è il titolo del quadro (1791) di Giandomenico Tiepolo; dipinto creato alla fine di un’era, fra la Rivoluzione francese e la caduta della Serenissima. Scrivono i curatori: «Il pittore opera un capovolgimento della rappresentazione, e la calca che si affolla in primo piano ci impedisce di vedere cosa c’è dietro. Nella frenesia dei personaggi è racchiusa una sensazione di profonda inquietudine e di fine imminente di un’epoca. Con la stessa trepidazione e le stesse incertezze contempliamo l’orizzonte in cerca di qualche indizio che ci aiuti a decifrarne il futuro, nella speranza che sia uno spazio in cui “Ognuno appartiene a tutti gli altri”».