L’esperto d’arte, se sbaglia, paga. Oppure no?

Il tema dell’attribuzione delle opere d’arte è sempre attuale, e sempre affascinante. Spesso riserva - ahimè - brutte sorprese per l’acquirente, che paga profumatamente un dipinto, per poi sentirsi dire che non è autentico (perché, ad esempio, è della scuola di un determinato artista, ma non direttamente creato dalla mano di quest’ultimo). Meno di frequente, accade invece l’opposto. Ciononostante, le cronache talvolta ci raccontano di scoperte eclatanti, in cui si è acquistato ad un prezzo contenuto e, dopo approfondimenti e indagini (spesso con un importante investimento economico), si capisce di avere in mano un autentico capolavoro.
Del resto, ci ricordiamo ancora bene il caso - di qualche anno fa - di una versione dei Bari di Caravaggio presentata da Sir Denis Mahon quale opera autografa del pittore lombardo. Il precedente proprietario della tela, Lancelot Twaytes, non aveva preso particolarmente bene la notizia di questa novella attribuzione ed aveva convenuto in giudizio Sotheby’s UK, chiedendo fosse accertata la negligenza della casa d’aste, colpevole - a detta di Twaytes - di aver trattato il bene senza correttamente analizzarlo e valorizzarlo. Il giudice dell’alta Corte londinese aveva respinto le accuse e mandato indenne l’intermediaria.
In Italia, esistono rimedi normativi tipizzati sia per tutelare il venditore che per tutelare l’acquirente quando si verifichino vicende analoghe a quelle sopra descritte. La “partita” si gioca - infatti e di solito - tra chi vende e chi compra.
Rimane invece più spesso sullo sfondo la figura dell’esperto professionale (persona fisica o giuridica), il quale interviene proprio per fornire il suo autorevole parere sull’attribuzione di un’opera.
Questa figura assume un ruolo giuridico più “defilato” poiché, di fatto, essa esprime la sua idea secondo il principio di libera manifestazione del pensiero, libera manifestazione che viene tutelata dal nostro ordinamento (anche e prima di tutto) a livello costituzionale, tramite l’art. 21; il consulente pare perciò godere di una posizione pressoché inattaccabile.
Certo, errare humanum est, e dunque capita che anche l’esperto più capace e preparato possa commettere degli errori: sia perché i mezzi di analisi si evolvono (e possono fornire risultati a volte stupefacenti ed inaspettati), sia perché possono emergere nuovi elementi sulla storia di un’opera, che portano ad un cambio di attribuzione, sia, ancora, perché è possibile una disattenzione.
In questi casi, dunque, l’esperto è passibile di responsabilità civile?
Se seguissimo l’orientamento di una recente pronuncia, sempre del Tribunale inglese (Wemyss Heirlooms Trust vs Simon Dickinson Limited - 2022 - EWHC 3091 (Ch)), dovremmo rispondere di no.
Questo il caso portato davanti alla Corte: Jean-Baptiste-Siméon Chardin (1699-1779) è un celeberrimo pittore francese, famoso soprattutto per le sue nature morte e per i ritratti a pastello; i suoi dipinti sono stati e sono esposti in musei del calibro del Louvre e dell’Hermitage. Nel 2014, un dipinto attribuito a “Chardin e alla sua bottega” - Le Bénédicité - viene acquistato per 1,15 milioni di sterline da un mercante d’arte; pochi mesi dopo, nel gennaio 2015, viene rivenduto come un lavoro autografo dell’artista, al prezzo di 10,5 milioni di dollari (pari a 8,5 milioni di sterline). L’attribuzione fatta nel 2014 era stata rilasciata dall’art dealer Simon Dickinson, titolare dell’omonima società.
E’ comprensibile quindi che, appresa la notizia della vendita stellare del 2015, il primo venditore (il trust degli eredi di Lady Amanda Claire Marian Charteris, Contessa di Wemyss e March, nata Feilding) si sia affrettato a citare in giudizio l’esperto che aveva espresso il parere di non piena autografia del dipinto.
Il trust affermava che Dickinson avrebbe dovuto interrogare altri periti prima di rilasciare la propria opinione e/o che avrebbe dovuto quanto meno informare il proprietario del bene (i.e. il trust stesso) che sussisteva il rischio che l’opera fosse stata sotto stimata.
Il Tribunale ha tuttavia rigettato la tesi del Wemyss Trust, così assolvendo Mr Dickinson, anche se quest’ultimo non aveva nemmeno consultato Pierre Rosenberg, autore del Catalogo Ragionato di Chardin (il quale, peraltro, aveva sibillinamente qualificato il dipinto come “copie retouchèe”).
La Corte inglese ha seguito un percorso argomentativo piuttosto singolare: davanti alla possibilità di “downgrading” dello status del quadro - ha sostenuto il Giudice - non va considerato negligente il consulente che scelga di non interpellare altri studiosi.
Ma una domanda ci pare lecita: può considerarsi in buona fede l’esperto che non chiede, per non ricevere la risposta che non vuole sentirsi dare?