Giacomo Costa, fotografo apprezzato da Lucio Dalla

Nicole Valenti
16.12.2022
Tempo di lettura: 3'
Fotografo italiano che ha conquistato il mercato internazionale, fra i suoi collezionisti Lucio Dalla e Norman Foster. Costa ha partecipato con le sue opere alla Biennale d’arte di Venezia del 2009 e ispira i professionisti del mondo del cinema americano

Giacomo Costa, classe 1970 fiorentino di nascita, è conosciuto nel mondo dell’arte contemporanea, nel quale lavora da quasi 30 anni, per le sue immagini dal formato cinematografico che ritraggono città distopiche dallo spirito post-apocalittiche, con immensi edifici dall’architettura fuori controllo, contornati da macerie dove la natura non compare e se compare è cattiva e dove la figura dell’uomo è ormai sparita lasciando solo un’ombra del suo passaggio. 


I paesaggi creati da Costa sembrano oggi aver predetto quello che il mondo ha vissuto negli ultimi due anni, una pandemia globale, la guerra e la crisi climatica. 


La sua è un’arte “d’impatto” fatta di opere dal grande formato dove la monumentalità sensazionalista delle super città create dal fotografo, ci ricorda il cinema trasferito nel mondo dell’arte


Giacomo Costa attraverso i suoi lavori ci mostra come potrebbe essere il mondo fra qualche anno se non prendiamo coscienza di noi stessi, per Giacomo l’arte ha il compito di creare un dibattito che possa essere una spinta nel cambiare le mentalità. 


Fra i suoi collezionisti grandi amanti del suo lavoro, troviamo Lucio Dalla, Norman Foster e professionisti del cinema di fantascienza americano, che trovano ispirazione nel mondo visionario e unico che contraddistingue l’arte di Giacomo Costa. 


Le opere del fotografo hanno partecipato a numerose mostre e fiere fra cui la Biennale d’arte di Venezia del 2009 e due edizioni della Biennale di Architettura di Venezia del 2006 e del 2021. Le sue opere sono state battute all’asta da Sotheby’s e Christie’s a New York e hanno un valore di 10.000 euro al metro quadro


Attualmente Giacomo oltre ad insegnare all’università di Catanzaro, sta preparando la sua prossima personale che si terrà nel 2023 presso la Dominik Mersch gallery a Sydney


In conversazione con Giacomo Costa 

Come comincia la tua carriera di fotografo? 

La mia carriera inizia con tutt’altro mi occupavo infatti di alpinismo e motociclismo. Mio nonno era stato un grande fotoamatore e io, fin da bambino lo guardavo lavorare in camera oscura. Questo amore verso la fotografia analogica è cominciato fra il 1989 e il 91’ quando inizia a dedicarmi all’alpinismo. Scalare ti porta a raggiungere luoghi inaccessibili, con paesaggi incontaminati e privi della presenza dell’uomo, in questo contesto ho scattato le mie prime foto e ho cominciato a pensare alla fotografia in termini più artistici, con una riflessione “spirituale” che ho poi cercato di tradurre in immagini. 



Autoritratto n.1


Cosa puoi dirci dell’assenza della figura umana nelle tue opere? 

Sicuramente l’ambiente aspro della montagna ha influenzato l’assenza della figura umana nelle mie opere allo stesso tempo il mio immaginario si è sviluppato sul filone della fantascienza e della distopia, degli anni 70’-80’, parliamo di un’epoca post seconda guerra mondiale, post nucleare, un immaginario fatto di luoghi spopolati e ricoperti di macerie. Questo è il mio background visivo e in qualche modo il paesaggio d’alta montagna ha uno spirito comune. Quando feci il salto nel mondo digitale, vidi che la figura umana era molto complicata da gestire, farla apparire iperrealistica con il linguaggio 3D sembrava impossibile negli anni 90’, decisi dunque di eliminarla dai miei paesaggi anche perché fondamentalmente non c’entrava nulla. Sulla mancanza della figura umana si è costruita una parte importante del mio racconto. 


A che età hai fatto la tua prima mostra? 

Nel 95’ all’età di 25 anni feci la mia prima mostra ad Artefiera Bologna, al tempo facevo ancora gli autoritratti, stavo giocando con le polaroid manipolate a mano, l’anno dopo nel 96’ sempre ad Artefiera Bologna ho presentato gli Agglomerati, un mix di fotografia analogica ricomposta digitalmente con Photoshop. La fotografia tradizionale non l’ho mai usata c’è sempre stata una rielaborazione digitale nonostante le mie immagini siano molto fotografiche a livello estetico, per regole compositive, inquadrature, luci e volumi che sono molto simili a quelli della pittura tradizionale. Quello che utilizzo è dunque il linguaggio della fotografia ma attraverso il mezzo digitale tecnologico. 


Con quali gallerie collabori? 

Storicamente lavoro con Guidi & Schoen una galleria di Genova, negli ultimi anni sto lavorando molto in Australia con la Dominik Mersch gallery di Sydney con cui collaboro dal 2010 e con cui ho realizzato diverse mostre. Ultimamente noto che in Italia c’è una crisi del mercato e la maggior parte delle vendite avvengono attraverso gallerie estere. Collaboro inoltre con una galleria in Germania a Dusseldorf (la Germania in Europa è il mercato migliore). Nel 2023 presenterò per la seconda volta una mia personale presso la galleria di Sydney dopo il grande successo della mia precedente mostra del 2021. 


Che rapporto hai con i collezionisti? 

L’aspetto economico/commerciale Io faccio seguire dalla galleria, se fosse per me non venderei nulla, sarei in grado di regalare anche un diamante perché non ho il senso degli affari. Con i collezionisti curo solo il rapporto umano credo di aver venduto personalmente 2 lavori in quasi 30 anni di carriera. 


Qual è il collezionista che ti ha più colpito? 

Sono due: Lucio Dalla e Norman Foster. 



Atmosfera n. 19, 2019


Puoi raccontarci un aneddoto? 

Lucio Dalla era una persona comune contraddistinta da una grande naturalezza, aveva una curiosità morbosa sui dettagli riguardanti i più disparati argomenti, combinata ad un’estrema genialità. Una sera andai a casa sua dopo aver visto il suo spettacolo della Tosca, a fine serata rimanemmo in pochi e lui si mise a suonare il clarinetto sul divano, stette 3 ore a suonare come se il mondo attorno a lui si fosse dissolto, improvvisava e giocava creando melodie fantastiche. Dalla era un grande appassionato d’arte, per un certo periodo ebbe anche una galleria nella quale mi invitò a fare una mostra, diventando poi un mio grande collezionista. L’ultimo lavoro che comprò fu una mia immagine del 2003, una delle mie classiche città distopiche fatte di immensi palazzi disabitati e lui mi chiese di accendere una lucina in una delle finestre dell’edificio dicendo: “Io voglio vivere li, questa sarà la casa di Lucio Dalla”, il titolo del museo a lui dedicato è proprio “La casa di Lucio Dalla”, nella cui collezione rientra questa mia opera. 


Anche l’incontro con Foster è stato davvero incredibile. Mi trovavo ad esporre con una galleria del Lussemburgo a San Sebastian, alla prima edizione di una piccola fiera di fotografia, a me piace sempre presenziare alle mie esposizioni perché non si sa mai chi potresti incontrare. La sorte volle che la moglie di Foster avesse preso a cuore questa fiera decidendo di venire con il marito. Appena Foster vide il mio lavoro entrò subito nello stand e comprò al volo le due mie opere più grandi, io non lo avevo nemmeno riconosciuto. All’epoca stavo preparando la mia prima monografia del 2008 e gli chiesi di scrivere il testo introduttivo al mio libro, essendo i miei lavori molto legati all’architettura. Quando il libro fu pronto l’editore portò un’anteprima alla fiera del libro di Colonia, Foster stava casualmente passando di là e appena vide la copertina del libro riconobbe il mio lavoro e disse: “Ma questo è il libro di cui dovevo fare l’introduzione! L’avete fatto senza?” La notte stessa ci scrisse il testo e ce lo mandò. Da quel momento rimanemmo in contatto collaborando successivamente in diversi progetti come la Biennale di Architettura di Venezia del 2006.


Cos’è per te l’arte? 

Per me l’arte è una comunicazione sentimentale mediata dal linguaggio visivo. Il pensiero dell’artista può essere vario, io ritengo che l’artista sia una spugna che assorbe, rielabora e manda fuori. In questo momento storico il mio lavoro è diventato molto di moda. Sono quasi 30 anni che mi interrogo sui temi della sostenibilità, dell’architettura fuori controllo, delle città non a misura d’uomo dove la natura non c’è e se c’è è cattiva. Il mondo che mostro è ormai senza possibilità di ritorno, la mia è una dura provocazione, un monito che vuole dire: “Non andiamo oltre, fermiamoci prima”. Io mostro una possibile versione del mondo se non interveniamo per cambiare la rotta. Mai come ora le conseguenze delle nostre azioni appaiono evidenti, ogni volta che ci sono due gocce d’acqua c’è un’emergenza meteo, l’impatto antropico è determinate. Noi dobbiamo dare una risposta a quello che sta succedendo, partendo dal nostro stile di vita, da come concepiamo le architetture e tutto il resto. Bisogna creare un circolo virtuoso risparmiando e gestendo le risorse in modo sostenibile, evolvendoci positivamente, cambiando le nostre tecnologie e cambiando soprattutto le mentalità. L’arte deve creare dibattito, deve servire a cambiare le mentalità, a creare nuove estetiche. Forse fra qualche anno invece delle tegole di cotto tutte le case avranno un tetto fatto da pannelli solari. 


Consideri il tuo linguaggio artistico “scioccante”? 

Anche qui c’è una doppia lettura della cosa: la mia arte è di grosso impatto, io ho cominciato a lavorare nelle fiere, ambienti grandi, con grandi quantità di persone, per cui se non fai un lavoro che colpisce scompari. Provenendo come formazione culturale dal cinema di fantascienza e dal sensazionalismo dove il formato è quello del grande schermo mi sono subito abituato a ragionare in quella direzione, approccio che nelle fiere premiava tantissimo. Ho dunque unito l’idea di monumentalità di queste super città e il contesto fantascientifico in cui mi sono sempre mosso, trasferendo così il cinema nel mondo dell’arte. 



Prospettiva n.60_2, 2003


Fra tutti i tuoi lavori ce n’è uno che ti sta particolarmente a cuore? 

Ci sono alcune opere che sono significative perché hanno rappresentato dei passaggi e sono “l’Atto n.4” dove per la prima volta sono riuscito ad ottenere tecnicamente un livello di dettagli di macerie altissimo creando un’immagine di forte impatto. Un’altra serie di successo che determina un grande passo avanti verso il fotorealismo sono gli Agglomerati 1 e 2 che restano per me tutt’ora delle immagini molto belle. Il loro iperrealismo faceva sembrare impossibile all’epoca che l’opera fosse interamente realizzata in 3D. Questo passaggio ha trasformato il mio linguaggio in un’espressione riconosciuta dalla collettività, pensa che poco tempo fa ho trovato su youtube dei tutorial su “come fare un’immagine alla Giacomo Costa” questo per me è un riconoscimento serio, guardando questo tutorial ho addirittura scoperto come fare delle cose in modo più intelligente di come le faccio io, quindi ho imparato anch’io come fare un’immagine alla Giacomo Costa. Quanto ci metti per realizzare un’opera? Circa un mese, però dipende, creo io stesso gli algoritmi che utilizzo per realizzare i miei paesaggi distopici e per finalizzare queste formule posso metterci anche anni, quindi definire le esatte tempistiche di realizzazione delle mie opere è difficile. 


Hai mai pensato di riprendere in mano il mezzo analogico? 

Ultimamente ho cominciato a dipingere a olio, mi piacerebbe fare una mostra di opere realizzate a mano, sto ancora cercando di trovare una formula che combini in modo rivoluzionare concetto e mezzo. Ho un’idea più forte delle altre, vorrei ricreare quello che è il modello di base da cui parte la modellazione 3d, si tratta di un'estetica classica del 3D, modelli bianca senza texture, mi piacerebbe quindi riportare il modello base del 3D dipinto ad olio. Io faccio 3D che sembrano fotografie in questo caso farei un dipinto che sembra un 3D, tecnica antichissima che riproduce un linguaggio contemporaneo. 


Se fossi un materiale che materiale saresti? 

Cemento armato.


C’è stato un viaggio che ha in qualche modo influenzato il tuo lavoro? 

Il mio immaginario si sviluppa dalla fantascienza, a dire il vero più che viaggiare uso Street View di Google Maps con cui ho girato il mondo, sono morboso posso stare anche 3-4 ore al giorno ad attraversare strade australiane deserte clic dopo clic. Due episodi mi hanno molto colpito, tornare a Genova da artista, mi ha fatto impressione perché sembrava una mia foto, la volta più strepitosa però fu a Potenza dove dissi: “Questa è davvero una mia foto!”. Durante i viaggi vengo colpito da ciò che assomiglia al mio immaginario. 


Cosa diresti ai tuoi studenti, ai giovani d’oggi? 

Capisci ciò che hai davvero dentro, quale esperienza vuoi raccontare. Ciò che conta è quello che hai da dire non l’estetica, leggere il mondo secondo la tua visione e guardare alla storia. Per trovare il proprio linguaggio ci vuole studio, tutto viene preso da ciò che c’era prima e portato oltre.



Atto n.4, 2006

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Nicole Valenti è una designer. Altoatesina, si laurea in decorazione con specializzazione in design e arti multimediali all’Accademia di Belle Arti di Firenze, dove vive. Contestualmente, si diploma in grafica alla scuola Internazionale di Comics della stessa città. Subito dopo la laurea, insegna nella sua accademia per la cattedra di decorazione. Nel 2018 fonda lo studio NIVA design, fra le cui eccellenze produttive figura la maniglia, reinterpretata traendo ispirazione da un immaginario vivido, non estraneo al mondo onirico. Attualmente Nicole collabora tramite il suo studio con artisti e designer internazionali come pure con gallerie di collectible design, sempre sperimentando e ricercando nuove modalità espressive.

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